Al momento stai visualizzando Il coronavirus a caccia dell’umanità

Il coronavirus a caccia dell’umanità

Riflessioni disordinate sulla risposta italiana alla crisi del Covid-19, seguite dalla considerazione dell’ipotesi di una possibile opportunità che questa emergenza mondiale può offrirci.

È ad oggi innegabile che il coronavirus abbia determinato un’ampia situazione di crisi, in Italia come nel resto del mondo, che si sviluppa almeno su due fronti.

Il primo, di carattere medico e sul quale lascio che siano gli esperti in campo a condividere informazioni e aggiornamenti di carattere scientifico con la comunità mondiale – cosa dalla quale mi permetto di consigliare tutti gli altri di astenersi per evitare di generare confusione e disinformazione.

Il secondo, di carattere prevalentemente politico in ordine alla gestione dello stato di crisi, oltre che da parte delle istituzioni di Governo, anche da parte dei singoli cittadini.

La mia umile analisi – più una riflessione su dati recepiti qua e là, e quindi, mi perdonerete, disordinatamente – non vuol partire da astratti assunti teoretici, sebbene sicuramente qualche richiamo sarà ridondante nel testo.

So bene – e, di questo, avviso chi mi sta leggendo – che la realtà odierna è legata a paradigmi di natura ben diversa rispetto a quelli ormai della cosiddetta “teoria politica classica” e che quindi meriterebbe di essere analizzata e mostrata in tutte le sue sfaccettature tenendo conto di tutti gli elementi che in essa confluiscono e che interagiscono tra loro, anche e soprattutto in questo stato emergenziale.

Premesso che ogni vera analisi per essere tale ha bisogno di tempo e, tanto meglio, deve essere fatta alla fine di un processo, assumerò come dati di questa riflessione solo alcuni elementi che caratterizzano in maniera più lampante la situazione attuale. Essi sono, da un lato, i provvedimenti del Governo, le modalità di diramazione dei decreti e i loro contenuti, e dall’altro, l’attenta lettura dei numerosi post che vengono sfornati dagli utenti dei diversi social quasi ogni ora.

Il coronavirus ha avuto la capacità di innescare una serie di comportamenti, intrinsecamente legati da un nesso di causalità, che, presi separatamente e guardati fuori dall’ottica della crisi in corso, sarebbero giudicati incomprensibili e inaccettabili.

Passo quindi ora ad elencarli procedendo in un tentativo di analisi senza però pretendere di mostrarne – almeno per il momento – una registrazione che abbia la parvenza di qualcosa di ordinato. Per cui invito a prendere quanto segue cum grano salis.

Il ricorso fatto dal Governo alla delimitazione di aree specifiche colpite in maniera più intensa dal virus, con la conseguente pesante limitazione di ingressi e uscite da suddette aree, è stato tacciato da qualcuno (vedasi lo scambio intercorso tra Giorgio Agamben e Jean-Luc Nancy proprio in merito alle misure adottate) come una finestra aperta dalla quale possa introdursi, e successivamente attuarsi, uno stato d’eccezione. Quest’ultimo sarebbe indicato come lo strumento predefinito per accrescere il potere nelle mani del governo in un’ottica marcatamente biopolitica.

Ciò che sarebbe stato artatamente presentato sarebbe uno scenario apocalittico capace di suscitare nella popolazione la pensabilità di poter momentaneamente rinunciare a parte dei propri diritti costituzionalmente garantiti in cambio di una parvenza di sicurezza. In particolare, quei diritti come la libertà di movimento su territorio nazionale, che per evitare una diffusione più rapida del virus sono e potrebbero continuare ad essere limitati o momentaneamente soppressi.

Volendo però avvicinarsi con maggiore attenzione al carattere di tali provvedimenti e slegandoli da una concezione di stampo totalitario, questi provvedimenti non solo risultano del tutto ponderati rispetto alla situazione ma sono anche indispensabili per poter superare in maniera ottimale le problematiche legate alla velocità del contagio. Queste norme, si basano sui pareri di un comitato scientifico che presumibilmente tiene conto di come l’emergenza sia stata fronteggiata in Cina, paese che prima di tutti sembra avviarsi verso il contenimento definitivo del virus.

Sembrerebbe decisamente troppo approssimativo scambiare lo stato d’eccezione di natura politica con lo stato d’emergenza legato ad una crisi sanitaria legata ad un virus, sebbene entrambi possano sembrare inizialmente e lontanamente simili per condizioni e modalità. Ma questi differiscono quantomeno per il carattere di – e qui sarà bene cercare di non farsi prendere da visioni complottistiche – accidentalità e imprevedibilità che accompagna la diffusione di una epidemia.

Questa condizione condivisa di accettazione volontaria di una possibile limitazione delle libertà personali è però senz’altro un dato di fatto. E questo è confermato sia da conversazioni orali – in cui qualcuno si può lasciar sfuggire qualche “slogan totalitarista” in più e di cui, magari in seguito, cercherà anche di giustificarsi – che dai post sui social di numerosi italiani che in queste ore non hanno paura di esporre il loro pensiero in merito alla necessità che questa emergenza venga gestita da pochi, se non proprio da uno solo. Questo “fenomeno”, sebbene la tentazione – condivisibile – di smorzarne e sminuire il significato, deve però essere preso in considerazione.

Ma è anche vero che molte sono state le critiche alle misure, ritenute da alcuni “troppo” restrittive, del Governo. Queste sono consistite in varie accuse di incostituzionalità alle modalità di attuazione dei decreti (cosa dalla cui trattazione in questa sede ben mi guardo e sulla quale, con il presente, dichiaro di non esprimere alcun parere di merito) e di preoccupazione per la restrizione di alcune delle libertà costituzionalmente garantite nelle cosiddette “zone rosse”.

Non si può non osservare poi con attenzione l’evolversi delle frizioni che si sono avute tra Governo centrale e singole Regioni in merito alle misure cautelative ritenute esagerate e/o inefficaci dagli enti regionali. E, senza impiegare ulteriori parole sui singoli episodi, queste difficoltà ad accordarsi sulle misure da far rispettare di comune accordo mostrano, in maniera quasi antitetica rispetto alle voci di critiche di imminente dittatura da un lato e a quelle che sembrano inneggiare allo stato assoluto dall’altro, la disgregazione di un’unità di potere. Disgregazione che in questi giorni si è palesata nello smarrimento di quasi tutti i cittadini alla ricerca di una fonte attendibile di informazioni sulle direttive da seguire. Una situazione tragicomica e surreale. Le domande della popolazione sono state più o meno queste: “Cosa fare?”, “A chi dare ascolto?”, “Quali direttive seguire?”, “Le regole per il territorio nazionale valgono anche per la mia regione?”, “Le dichiarazioni fatte dai politici sui social valgono come direttive in assenza di decreti ufficiali?”. Questo frazionamento infinitesimale delle informazioni, delle direttive – in una parola schematica – del comando, avvenuto in questi giorni di stato di emergenza, apre uno squarcio sullo sbriciolamento del potere.

Un frazionamento del potere senz’altro legato, qui in Italia, al fattore delle autonomie regionali sancito dalle recenti (2001) modifiche al Titolo V dalla Costituzione. Ma per questo, bisognerebbe aprire un capitolo a parte. Analisi che sarà in futuro portata in altra sede.

Un altro fattore determinante, se non centrale, è stato in questi giorni quello della comunicazione. E soprattutto della diffusione di notizie da parte di quotidiani nazionali, date anzitempo, con la presenza di inesattezze o anticipazioni delle mosse del Governo e che poi sono state frettolosamente smentite quando ormai confusione e panico, che sono naturalmente seguiti, sei erano inevitabilmente diffusi tra la popolazione. Bisognerebbe aprire anche qui una parentesi, con annesse considerazioni di carattere etico, sugli spiacevoli episodi delle bozze dei decreti fuoriuscite prima di essere firmate dall’esecutivo.

Questa notte infatti, al seguito del trapelare di una bozza di decreto ancora non firmata che sanciva il blocco della regione Lombardia, abbiamo tutti assistito alla spiacevole fuga di massa dalle città del Nord verso il Sud. È chiaro che ciò ha portato ad una “delusione” e ad un disattendimento delle raccomandazioni al senso civico e di responsabilità di tutti su tutti che ci si sarebbe aspettati in una situazione di crisi, ma è anche vero che una notizia di questa portata allarmerebbe qualsiasi cittadino che sia nato e cresciuto in un Paese in cui ha sempre goduto del diritto di muoversi liberamente sul territorio nazionale. È l’incontro/scontro con il nuovo. Una reazione simile era del tutto prevedibile e “umana”.

Ritornando poi a leggere numerosi post sui social e ritrovando coloro che in queste ore gridano all’abolizione della democrazia e caldeggiano – si leggono termini aberranti come – «sterminio» e/o «estinzione della ignobile umanità», non posso non constatare che si tratta degli stessi individui che in “tempo di pace” si fanno promotori di messaggi di accoglienza e si proclamano difensori dei valori imprescindibili della democrazia. Parlando in questi termini, se si volesse dare un giudizio a simili esternazioni il paragone sarebbe presto fatto. Ma ritengo che quanto scritto prima, e cioè la distinzione necessaria tra due tipologie differenti di crisi, renda coerente che non si lavori troppo per analogia anche in termini di coerenza espressiva – nonostante un’inevitabile tensione a fare ciò permanga in ciascuno – che ci porterebbe, con un certo sarcasmo, a invogliare questi concittadini virtuali quantomeno a decidersi per una parte: il virus o l’umanità.

Star lì pronti a puntare il dito verso questi “migranti” mentre si sorseggia un cocktail in un bar affollato il sabato notte, con irragionevole e immotivata spensieratezza e irridendo beffardamente la pericolosità del virus – come ho letto che hanno fieramente fatto numerosi “amici di Facebook” – rischia di trasformare questa emergenza in una “caccia alle streghe”.

Con questo non entro nel merito di un giudizio morale sull’azione di quanti si sono riversati in stazione ieri sera.

Sicuramente però “cercare il responsabile” o le colpe per una malattia, se da un lato è una delle modalità primitive con cui l’uomo cerca di mettersi al sicuro (meccanismo di difesa), è anche vero che ciò palesa in buona parte una auto-accusa rivolta alle inottemperanze ai consigli di carattere sanitario che sono stati raccomandati nelle regioni meno colpite e di cui probabilmente non si è tenuto molto conto.

Questi comportamenti rischiano di farci perdere di vista il carattere umanitario di questa sfida che il coronavirus ha lanciato a tutti noi. Una sfida di responsabilità, un invito a rendersi conto dell’altro che vive a fianco a noi e che non è solo funzionale rispetto alla nostra individualità (animale e materiale), ai nostri bisogni/necessità ma che come essere umano è portatore di istanze, paure, insicurezze, fragilità. Come noi.

E non sono queste caratteristiche dell’uomo che la malattia, più di ogni altra cosa, ci fa brutalmente presenti? Forse che la paura di accogliere e giustificare l’altro in quanto bisognoso, è la paura che noi abbiamo di conoscere e riconoscere noi stessi in quanto natura fragile?

In questa emergenza globale possiamo scorgere la possibilità di essere finalmente svegliati dal torpore dell’individualismo. Può essere questa una opportunità per ciascuno?

Rispondi