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La “vita normale” dopo il Coronavirus?

Quello che sta avvenendo in questi mesi è un grande evento epocale. Il “nostro” evento epocale, oserei direi. Quello che ci traghetterà in una nuova epoca. Molte delle consuete abitudini di vita nelle quali molti di noi – compreso il sottoscritto – sono nati cambieranno.

Dall’emergenza non potremo più tornare indietro alla “vita di prima”. Sarebbe utopistico affidarsi ad un pensiero simile.

A questo proposito trovo molto interessante sottoporvi la sintesi che ho fatto di questo articolo uscito qualche giorno fa sul MIT Technology Review che parte da un report del 16 Marzo dell’Imperial College of London sull’“Impatto degli interventi non farmaceutici sulla riduzione della mortalità portata dal COVID-19 e sulla domanda di assistenza sanitaria” [Impact of non-pharmaceutical interventions (NPIs) to reduce COVID19 mortality and healthcare demand].

Cosa cambierà nel mondo così come lo conosciamo a causa di questa emergenza e dopo essa? Come cambieranno le cose?

A cominciare dalle attività economico-finanziarie, i business che a stretto giro di posta saranno duramente provati dalla crisi – e che già lo sono in alcuni paesi – sono quelli che contano sulla presenza/attività di un grande numero di persone riunite a stretto contatto: bar, palestre, caffè, ristoranti, fabbriche etc… Anche chiunque non abbia un cuscinetto finanziario per far fronte alle oscillazioni del reddito (famigliare e/o aziendale) è a rischio.

Un altro dei sistemi messi a dura prova è quello dell’educazione scolastica in periodi di chiusura totale degli enti educativi, che in Italia già stiamo fronteggiando. La scolarizzazione dei bambini/ragazzi sarà affidata anche all’impegno dei genitori.

Per far fronte a questo stravolgimento epocale anche la fruizione di molte attività fornite da diverse imprese dovrà cambiare, come ad esempio la possibile organizzazione di classi di attività motoria online per le palestre, o le già citate altrove video lezioni per il sistema scolastico che qui da noi sono già cominciate da settimane (con annessi non pochi problemi che forse sarebbe opportuno trattare in una sede riservata solo alla didattica).

Sicuramente molte “vecchie” abitudini potrebbero cambiare come ad esempio meno spostamenti legati allo sfruttamento di carbone e combustibilie fossili.

Ciò significherà anche una drastica diminuzione di tutte le attività imprenditoriali di piccole e medie imprese da un lato, e di conseguenza, dall’altro, della sempre minor possibilità per le famiglie di garantirsi i mezzi di sussistenza necessari. Per questo uno stile di vita “chiuso” (dell’#iorestoacasa per intenderci) non sarà sostenibile a lungo.

Altre cose invece potranno tornare: potrebbero rinascere (in l’Italia come altrove) numerose catene di approvvigionamento locali; così come l’attività fisica assumerà una maggiore importanza insieme all’incremento di passeggiate e giri in bicicletta. Cose, queste ultime, che diventano idispensabili in quanto investimento imprescindibile sulla salute.

Sulla rivista della prestigiosa università americana, forse non ancora del tutto consci del tenore delle restrizioni – e soprattutto anche alle conseguenze di carattere psicologico – a cui siamo sottoposti in paesi come l’Italia, per poter permettere la sopravvivenza di una seppur minima parvenza di vita sociale, parlano di ipotetici “compromessi” come l’occupazione solo di metà dei posti in un cinema, o l’adozione di sale più grandi con sedie distanziate per le riunioni e la richiesta da parte delle palestre della prenotazione degli allenamenti in anticipo in modo da non essere affollati.

Si parla poi del tracciamento degli spostamenti tramite cellulare come sta facendo Israele che utilizza i dati sulla posizione dei cellulari dei propri cittadini. Un potente strumento con cui i servizi di intelligence israeliani rintracciano i terroristi, solo che in questo caso verrà utilizzato per rintracciare le persone che sono state in contatto con “portatori noti” del virus. Probabilmente, «questa sorveglianza invasiva sarà considerata un piccolo prezzo da pagare per la libertà di base di stare con altre persone»(?).

Tornando poi all’emergenza sanitaria vera e proprio, come si fa notare nell’articolo, il costo reale sarà sostenuto dai più poveri e dai più deboli, come ad esempio chi non ha accesso a cure assistenziali sanitarie adeguate (situazione molto più frequente negli U.S.A. che in Europa) o chi fa lavori che lo portano a stare a stretto contatto con altre persone.

Ma sempre in quest’ottica, se si ha il coraggio di prendere decisioni nuove e diverse, anche in campo economico, l’emergenza globale portata dal COVID-19 può essere l’opportunità per gli Stati di correggere ingiustizie e disuguaglianze sociali che rendono largamente vulnerabili ampie fette della loro popolazione.

In conclusione, l’invito rimane quello di limitare il più possibile gli spostamenti superflui. Anche stando alle possibili variabili analizzate dai ricercatori dell’Imperial College of London, l’unica che per il momento si rivelerebbe efficace sarebbe quella di incrementare la cosiddetta «social distancing» e cioè la riduzione di almeno il 75% dei contatti al di fuori di ambienti come casa, scuola o lavoro.

Riportando integralmente quanto dichiarato dai ricercatori «ciò non significa che puoi uscire con i tuoi amici una volta alla settimana anziché quattro volte. Significa che tutti fanno tutto il possibile per ridurre al minimo i contatti sociali e solo così, nel complesso, il numero di contatti diminuirà del 75%». 

Secondo qunato concluso dai ricercatori, il «social distancing» e la chiusura delle scuole sono il metodo attualmente più efficente. La loro proposta è che queste regole debbano rimanere in vigore per circa i due terzi del tempo – circa due mesi e un mese di pausa – fino a quando non sarà disponibile un vaccino, che richiederà – se tutto andrà bene – almeno 18 mesi.

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